09-05-2016

Paradisi fiscali e società off-shore, in breve

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A pochi giorni dall’incontro di Londra si riaccendono i riflettori sullo spinoso tema dei paradisi fiscali, tema tornato prepotentemente attuale dopo lo scandalo dei Panama Papers di circa una mese fa. E appare quasi ironico sia proprio Cameron ad ospitare il summit dopo che il nome di suo padre era in cima alla lista dei clienti dello studio Fonseca.

Ma nessuno poteva sospettare nulla di tutto ciò un anno fa, quando fu indetto l’incontro. Quello che invece si sapeva e aveva già creato qualche imbarazzo è il fatto che alcuni dei più famosi paradisi fiscali del pianeta siano tra i cosiddetti British overseas territories, ovvero sono formalmente parte del Regno di Sua Maestà. Isole Vergini e Isole Cayman, su tutti. Non suona strano la loro presenza di loro rappresentanti a Londra sia in forte dubbio.

E certo non serviva la lettera firmata da trecento economisti, Piketty in testa, in cui si attesta che i paradisi fiscali distorcano il mercato per prendere una posizione netta a proposito. Perché, se è vero che possedere società off-shore non è necessariamente illegale, lo si può definire quantomeno eticamente discutibile.

Ma cosa sono, in breve, un paradiso fiscale ed una società off-shore? Un paradiso fiscale è uno stato in cui per attirare capitali esteri le tasse sono molto basse o inesistenti al contrario della riservatezza sulle attività finanziare che solitamente è massima.

Condizioni che risultano decisamente favorevoli per chi possegga un’attività in un paese con una tassazione normale ma voglia beneficiare di alcuni sconti da parte dell’erario. Ciò che è comunemente chiamata evasione fiscale.

Evadere le tasse attraverso un paradiso fiscale è, tecnicamente parlando, molto complicato ed è per questo che esistono aziende come lo studio Fonseca che offrono consulenza fiscale ad hoc. Il 95% delle attività degli avvocati di Fonseca è studiare metodi di evasione. Tuttavia, il meccanismo si basa su di un’idea molto semplice.

Ogni paese tassa i profitti fatti in quel paese. La società A produce un determinato bene in Italia e lo vende a prezzo di costo alla società P che ha sede in un paradiso fiscale dove la tassazione è nulla. La società P rivende il bene alla società B con sede in Francia al doppio di ciò che la pagata e non essendo sottoposta ad alcuna aliquota fiscale non versa nulla all’erario. Se A e P fanno capo alla stessa persona, A ha venduto a B effettuando un guadagno netto del 100%, con buona pace dei regimi fiscali italiano e francese.

uQuello a cui dovrebbe servire il meeting londinese è la presa di una posizione comune di Regno Unito, America ed Unione Europea nella lotta a questo tipo di pratica. Per iniziare si potrebbe obbligare le società a rendere pubblico il nome di chi le possiede davvero e dove hanno effettivamente luogo i profitti, poi si potrebbe impedire l’accesso agli accordi internazionali a tutti quei paesi che non giocano secondo le regole.

Ma probabile che anche da Londra se ne esca con un nulla di fatto. Non saranno certo i Panama Papers a cambiare le cose, come non cambiò nulla la Lista Falciani lo scorso anno. D’altronde Sanders ancora nel 2011 opponendosi all’accordo di libero scambio con Panama aveva denunciato la cosa, l’amministrazione Obama disse che le sue accuse erano prive di fondamento.

Forse è eccessivo anche dire, come capita dalle parti dell’ONU, che siano gli stessi governi di paesi fortemente industrializzati ad incentivare la nascita di paradisi fiscali per favorire chi sostiene le proprie campagne elettorali, ma non c’è dubbio che più che ad una strenua lotta assistiamo ad una pacifica connivenza.

Oxfam denuncia che le mancate tasse versate sui profitti delle big companies fatti in Africa ammontino a circa 14 miliardi di dollari, cifra sufficiente a salvare 4 milioni di bambini all’anno e pagare tanti insegnanti da non aver più bambino senza istruzione. Forse qualcuno potrebbe anche rinunciare al jet privato.

 

 

Grazie a Fabio Troglia per questo approfondimento.

 

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